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sabato, 27 Aprile, 2024

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Maria Rita Parsi su nuovo modello di carcere

Mentre scrivo, penso alle “Lettere dal Carcere” di Antonio Gramsci. E mi chiedo quali lettere dal carcere, oggi,potrebbero, inviare al Ministro della Giustizia, Marta Cartabia, quelli che- colpevoli, presunti colpevoli o, perfino, innocenti- stanno scontando, in carcere, la loro pena. Quei “cattivi” sono “doppiamente” imprigionati, proprio nel senso che la radice latina della parola suggerisce: “Captivus” ovvero “Prigioniero”. Ma, proprio in prigione, se ben contenuti e trattati, essi potrebbero comprendere il valore del redimersi e della libertà. E così dovrebbe, in assoluto, essere se si considerassero le strutture carcerarie come luoghi di pena istituiti al fine della riabilitazione di chi , per scontarla, vi è rinchiuso. Infatti, i carcerati sono “doppiamente prigionieri”. Sia perché detenuti e sia perché “incattiviti” dai loro vissuti, dai loro disfunzionali e/o violenti e/o criminali percorsi di vita. E, ancora, dall’educazione che hanno ricevuto dall’ambiente familiare , scolastico , sociale, culturale , spirituale nel quale sono cresciuti. Poveri o poverissimi, benestanti ,o ricchi o ricchissimi che fossero!

E’ su questa seconda, patologica prigionia che comunque la detenzione comporta che si dovrebbe, anzitutto e soprattutto, provvedere a far luce. Per rendere le carceri quel “modello” di intervento che, allorquando esse vengano, in tal modo, progettate e gestite, espiare una pena consentirebbe di favorire un’autentica riabilitazione dei condannati. Comunque, “carceri modello”, in Italia, esistono. Forse poche. Ma esistono. E in una di quelle sono, oggi, rinchiuse le guardie carcerarie che hanno picchiato e torturato tanti detenuti. Per la loro brutalità, per la loro “cattiveria”, è necessario, però, considerare la tripla prigionia a cui essi sono sottoposti. Anzitutto, essere persone che vivono in carcere gran parte del loro tempo, per tenere sotto controllo chi è incarcerato. In secondo luogo, essere costantemente a contatto con il malessere, l’odio, la rabbia, la frustrazione, il senso di colpa di tanti detenuti, per quel che hanno fatto. O, invece, col loro ingovernabile desiderio di continuare a delinquere. Oppure con il loro doppio, schizofrenico gioco di fingere un pentimento che non provano. Ed, anche, col doversi misurare con il malaffare ricattatorio che si insinua e circola nelle strutture carcerarie, eludendo le norme e ricercando collusioni. In terzo luogo, difendersi da tutto questo “contagio” senza essere, adeguatamente e costantemente, assistiti individualmente e in gruppo. Per garantire, a se stessi e ai detenuti, un equilibrio e una salute psicofisica e mentale capace di sostenere un simile inferno.

Se, dunque, ogni penitenziario fosse – come dovrebbe, in assoluto e in primis, essere! – un luogo di riabilitazione, di recupero, un “modello” da offrire a chi, deviando in modo criminale, ha smascherato, anzitutto e soprattutto, quel che di peggio ogni collettività umana è capace di determinare, far crescere e prosperare, esso potrebbe mostrare- e si legga la radice latina “monstrum” – laddove mostro è “colui che mostra!” – quale inferno può ospitare la vita di tanti. A loro danno e danno degli altri. E, pertanto, ogni struttura carceraria dovrebbe essere strutturata come un ottimale centro di recupero, studio, lavoro, cura, assistenza psicologica, sanitaria, spirituale. E di educazione alla legalità e alla responsabilità.

Ed essere, dunque, un luogo produttivo, programmato in modo tale da consentire ai detenuti – attraverso cure, formazione e lavoro (lavoro da individuare tra quelli che si possono espletare pur essendo carcerati) – di contribuire anche al proprio mantenimento e a quello delle strutture penitenziali che li ospitano. “Le aziende carcerarie” potrebbero ,così, essere un investimento utile, produttivo, nel senso della prevenzione e del contrasto alla criminalità, attraverso la valorizzazione di quei contributi sociopedagogici e legali che, forse, oggi, né i carcerati né chi li controlla potrebbero aver non ancora ricevuto o non aver ricevuto in modo adeguato. Così da poter positivamente contenere e riciclare quel patologico malessere che “incattivisce” chi si sente “prigioniero”. E non vede, in fondo al tunnel, alcuna luce di speranza e di costruttivo, creativo, produttivo cambiamento, per sé stesso e per gli altri.

Prof.ssa Maria Rita Parsi

Psicoterapeuta e presidente Movimento Bambino

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