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sabato, 20 Aprile, 2024

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Una storia su mia madre, di Paolo Cendon

“Dunque. Malata la mamma, molto, si paventa un tumore al pancreas: da mesi il colorito senape parla chiaro. Viene ricoverata in ospedale a nord di Roma; verso luglio i medici decidono di operarla, nessuno si fa illusioni. Donna ancora giovane, poco più di sessant’anni; da ragazza ha seguito dei corsi di infermiera, a Venezia, un po’ se ne intende di medicina. Persona attiva, una bellezza forte, luminosa: legge parecchi libri, vitale, energica, ama la musica, elegante; mi ha seguito/accudito giorno per giorno sin da piccolo, ha condiviso con me ogni momento della vita. Ora vedova, alquanto sola, un po’ malinconica; impaurita da quel male, dal giallore in viso che non lascia tante speranze.

 C’è sempre la possibilità che si tratti di calcoli, tutti ci attacchiamo a quell’ipotesi.

 Ho poco più di trent’anni io.

 Quella mattina fuori della sala operatoria sono solo ad aspettare il responso; abito da un po’ di tempo – per assisterla meglio – nel suo appartamentino in piazza Nemorense; vado su e giù di lì all’ospedale, sulla Flaminia, sopra il mio maggiolino grigio chiaro, anche quel giorno ho fatto così. Il chirurgo esce serio dalla sala e, presomi in disparte, mi conferma che è ciò che si temeva: l’hanno richiusa senza poter fare nulla, non ci sono speranze. Pancreas. Aggiunge che i malati del genere sperano sempre, comunque, si tratti di calcoli alla cistifellea, che è bene alimentare quell’illusione; diffidenti peraltro i pazienti, tutti quanti, sempre: pretendono si mostrino loro i segni tangibili trattarsi proprio di calcoli.

 Mi consiglia, perciò, di farmi dare da un’infermiera una boccettina col tappo, di riempirla d’acqua, di uscire nel vialetto appena fuori; di prendere qui un sassolino qualsiasi, infilarlo dentro la boccetta: di dire a mia madre che è quello il calcolo che le hanno trovato, e poi tolto. Non ci capisco molto, già sono tramortito dal dolore; mi pare sia una cosa strana, quell’invenzione, ritengo impossibile che un malato, non del tutto ingenuo, possa cascarci. Il chirurgo risponde come non ci sia altro da fare; meglio, secondo lui, tacere la verità: il bisogno di sperare spinge, incredibilmente, tanti malati a crederci comunque.

 Obbedisco, pur combattuto, lacerato, prendo a caso dal vialetto un sassolino grigio, piccolo; guardandolo così levigato e rotondetto mi sembra impossibile (mia madre poi!) che qualcuno possa scambiarlo per un ‘calcolo’; per la verità, non ho neanche mai visto un calcolo umano: ‘Chissà, magari funziona’, mi dico.

Intanto l’infermiera mi ha dato la bottiglietta, la riempio d’acqua.

Quando mia madre torna nella stanza apre gli occhi, dopo l’anestesia, chiede com’è andata.

 ‘Bene, – rispondo, fatico a guardarla, – il chirurgo ha detto che era un calcolo’.

Sembra crederci poco, si vede ogni giorno allo specchio, quando si lava il viso.

 ‘E dove sarebbe questo calcolo?’, conosce la prassi dell’ospedale.

 Speravo non me lo chiedesse; mi hanno detto però che, se si risponde che il calcolo è stato buttato via, per il paziente è la prova come la verità sia quella opposta, infausta e più tragica: anche quando si tratti davvero di un calcolo. Prendo così riluttante la boccetta appoggiata sull’armadio, con dentro quel ridicolo sassolino, lo porgo alla mamma. Le basta un’occhiata per capire che si tratta di una messinscena; per non sbugiardarmi fa finta di niente, assente silenziosamente. Sa che sto mentendo in nome di una speranza – della non disperazione – da sostenere; vede che mi sono reso conto come lei abbia indovinato.

 Morirà dopo due mesi.

 Penso a questa storia un giorno sì e un giorno no; sogno spesso la mia mamma. Quasi sempre sogni tristi, oppressivi: non tutti per fortuna”.

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