Con la firma del decreto ministeriale “End of waste”, firmato lo scorso 24 settembre, anche la carta da macero entrerà nel processo di riciclo. Ad annunciarlo è stato lo stesso Ministro del Dicastero dell’Ambiente, Sergio Costa. “L’End of Waste è un tassello indispensabile per la valorizzazione del potenziale dei rifiuti e può dare un forte contributo allo sviluppo delle potenzialità del settore di riciclo – afferma il Ministro -. Una società del riciclo e del recupero diventa tale nel momento in cui i materiali possono essere reintrodotti sul mercato ed essere in grado di competere con le materie prime vergini, consentendo una riduzione del consumo di risorse naturali e materie prime, e la riduzione del quantitativo di rifiuti da destinare allo smaltimento”.
Nel 2018 la carta complessivamente raccolta si attestava a 5,3 milioni di tonnellate, e insieme a quella proveniente dagli stabilimenti industriali contava un totale di circa 6,65 milioni di tonnellate. La carta da macero da questo momento non sarà più considerata come un rifiuto, bensì potrà essere riusata come materia prima nella manifattura di carta e cartone nelle industrie. Il concetto “End of waste”, introdotto dalla Commissione europea nel 2005, promuove il processo di riciclaggio al fine di ridurre l’utilizzo di materie prime vergini e mira, al tempo stesso, alla riduzione dei consumi e ad una maggiore tutela dell’ambiente.
https://www.minambiente.it/comunicati/end-waste-carta-e-cartone-costa-firma-regolamento-forte-contributo-settore-del-riciclo
https://www.isprambiente.gov.it/it/archivio/notizie-e-novita-normative/notizie-ispra/anno-2012/ispra-alla-fiera-ecomondo.-rimini-7-10-novembre-2012/Presentazione_Criteri_EoW_Mundo.pdf
A cura di Simone Riga
Sembra essere sempre la stessa storia, i più ricchi che non seguono le buone pratiche conducendo un’esistenza non sostenibile che inevitabilmente ricade sulle classi meno agiate. Ma non è la solita retorica ricchi e poveri, bensì l’ultimo rapporto pubblicato da Oxfam che ha evidenziato come basti solo l’1% della popolazione ricca del mondo, pari a 63 milioni di anime, per inquinare più del doppio (15%) rispetto a 3,1 miliardi di persone povere che inquinano per il 7%.
Se poi si va a vedere la situazione nel suo insieme, i dati ci dicono che la popolazione mondiale più ricca al mondo, ovvero il 10% con i suoi circa 630 milioni di individui, causano il 52% di emissioni di anidride carbonica. Numeri impietosi, che sono stati elaborati attraverso l’analisi della quantità di emissioni per fasce di reddito. “I dati raccolti dal 1990 alla metà degli anni '10 ci raccontano di un modello economico non sostenibile, né dal punto di vista ambientale, né dal punto di vista economico e sociale, che alimenta la disuguaglianza soffocando il pianeta da tutti i punti di vista”, ha affermato Elisa Bacciotti, responsabile campagne di Oxfam Italia.
L’Espresso raccontava un anno fa di una ricerca condotta alla fine degli anni ’90 da un gruppo di ricercatori dell’Università del Massachusetts, guidata dall’economista James Boyce. Tale studio mirava ad analizzare le relazioni, qualora ce ne fossero, tra le disuguaglianze e l’inquinamento in ogni singolo Stato. La ricerca portò a scoprire che dove era presente un alto divario di redditi le condizioni dell’ambiente erano peggiori. Il gruppo di ricercatori, infine, mise in relazione le disparità di potere con le politiche ambientali adottate in Nord America e ne uscì che negli Stati dove si erano implementate delle politiche più sensibili all’ambiente e alla giustizia sociale la distribuzione del potere era più equa tra i cittadini.
https://www.oxfam.org/en/press-releases/carbon-emissions-richest-1-percent-more-double-emissions-poorest-half-humanity
https://www.repubblica.it/economia/2020/09/21/news/allarme_oxfam_i_piu_ricchi_inquinano_i_piu_poveri_travolti_dai_cambiamenti_climatici-268021950/
https://espresso.repubblica.it/attualita/2019/09/10/news/meno-foreste-piu-disuguaglianze-1.338527
A cura di Simone Riga
Con l’estate ormai alle spalle e il costume da bagno riposto nell’armadio si tirano le somme di quella che è stata la stagione estiva. A tirare le somme è anche la National Snow and Ice Data Center (NSIDC) attraverso la sua annuale analisi satellitare sullo stato dei ghiacciai nell’Artico. E quest’anno i dati non sono molto confortanti, dato che per la seconda volta in 42 anni dall’inizio delle registrazioni, la superficie dei ghiacciai è scesa sotto i quattro milioni di chilometri quadrati, per la precisione 3,74 milioni.
Negli ultimi 60 anni la calotta artica ha perso 2/3 del suo volume, e il 70% del ghiaccio marino artico è meramente “stagionale”, dicono i rilevamenti condotti dagli scienziati della NASA. Questo tipo di ghiaccio, meglio conosciuto come permafrost sporadico, si differenzia dal permafrost permanente per la sua vulnerabilità al vento e alle condizioni atmosferiche. “Abbiamo perso così tanto permafrost permanente che i cambiamenti nello spessore della calotta saranno più lenti a causa del diverso comportamento di questo tipo di ghiaccio”, dice Ron Kwok, scienziato della NASA of the Jet Propulsion Laboratory in California.
A preoccupare sempre di più sono anche le alte temperature che si raggiungono durante l’estate che innescano un rapido scioglimento dei ghiacciai; 38, sono i gradi che si sono raggiunti nella passata estate in Siberia nel centro abitato di Verchojansk, dove i suoi abitanti sono abituati a passare inverni con 40° sottozero. “La calotta artica è un oceano ghiacciato che ha urgente bisogno di protezione e i leader mondiali devono comprendere il ruolo degli oceani nell’affrontare la crisi climatica. Oceani sani sono cruciali per alcune delle popolazioni più emarginate del mondo, che subiscono l’impatto della distruzione degli ecosistemi marini e dei cambiamenti climatici. Dobbiamo cambiare subito il nostro modo di prenderci cura l’uno dell’altro e del nostro Pianeta. Dobbiamo proteggere almeno il 30% dei nostri oceani entro il 2030 anche per far fronte alla crisi climatica”, commenta Laura Meller della campagna Oceani di Greenpeace Nordic a proposito dell’analisi del NSIDC.
https://nsidc.org/arcticseaicenews/2020/09/arctic-sea-ice-decline-stalls-out-at-second-lowest-minimum/
https://climate.nasa.gov/news/2817/with-thick-ice-gone-arctic-sea-ice-changes-more-slowly/
https://www.greenpeace.org/italy/comunicato-stampa/12402/artico-registrato-il-secondo-dato-piu-basso-di-sempre-del-livello-di-ghiaccio-marino/
https://www.corriere.it/esteri/20_giugno_27/caldo-record-riviera-siberiana-38-paese-piu-freddo-mondo-2817d506-b88b-11ea-b2d0-312cc6f9a902.shtml
A cura di Simone Riga
A 2275 metri di quota, sulla cima di Plan de Corones, è situato il museo della fotografia di montagna, Lumen. Le sale interne ospitano foto storiche, innovazioni digitali, ed esposizioni temporanee che ripercorrono l’affascinante storia degli altipiani. Il museo è anche un luogo d’incontro e di scambio culturale, che oltre alla presenza di mostre permanenti e temporanee, accoglie eventi di teatro, musica e cucina internazionale che hanno come tema centrale la montagna.
Uno spazio poliedrico dove le arti si fondono con l’ambiente partendo da diverse prospettive, in una continua e attenta evoluzione. Fino ad ottobre sarà presente la mostra “Mountain Pieces. Reflecting History”, opera di Sissi Micheli, che analizza il concetto di guerra e pace; e il ruolo delle montagne nei periodi bellici che le ha viste come protagoniste. All’interno è presente anche un ristorante gourmet, fresco vincitore del premio come miglior punto di ristoro in un museo, guidato dallo chef stellato Robert Niederkofler. L’annuale rassegna degli chef avrà quest’anno lo scopo di sensibilizzare la cucina sostenibile e a chilometro zero. Lumen, che è stato ideato da un progetto di recupero dell’ex stazione della funivia Plan de Corones, è un luogo spirituale dove è possibile contemplare il panorama straordinario delle Dolomiti immergendosi nell’arte.
https://www.lumenmuseum.it/it-it/lumen-museum
https://www.lastampa.it/montagna/2020/09/24/news/titolo-di-prova-1.39332776
A cura di Simone Riga
Da sabato 26 settembre cominceranno una serie di incontri nella seconda edizione dell’Eco Festival Plastic Free, curato da Nadia Mastropietro, facente parte del palinsesto culturale di ROMARAMA 2020. PLASTICA d’A-MARE sarà luogo di dialoghi, concerti, mostre ed esposizioni culturali che avranno come tema centrale l’inquinamento dei mari e i cambiamenti climatici. Il progetto si pone come luogo di scambio e conoscenza di temi ambientali e saranno tantissimi gli ospiti che prenderanno parte al Festival.
Il 27 settembre il Porto Turistico di Roma ospiterà una tavola rotonda con BlueMed, WWF Italia, Marevivo Onlus, Clean Sea Life, Ostia Clean Up e Mercato Circolare. La giornata prevederà la talk-performance della naturalista Laura Pintore (WWF) e lo street artist Moby Dick, in cui il pubblico sarà coinvolto nella realizzazione di opere artistiche, il live painting dello stesso Moby Dick, fino ai laboratori per bambini e ai concerti live di Gabriella Martinelli, Giulio Wilson e Vincenzo Fasano, a partire dalle 17.30 del 27 settembre. Inoltre, ci sarà l’esposizione dei progetti finalisti della CALL for ARTISTS dedicata a creativi emergenti invitati a riflettere sul tema del riciclo della plastica. Per chi non potrà essere presente di persona, quest’anno si potrà partecipare anche in diretta streaming sulla piattaforma Rebel Live.
“Abbiamo una grandissima responsabilità nei confronti della salute dei nostri mari. Le politiche consumistiche messe in atto dai governi, la sfrenata ricerca di profitto da parte delle aziende e i comportamenti irresponsabili di noi cittadini stanno portando ad una drastica conseguenza: si prevede infatti che nel 2050 ci sarà più plastica che pesce negli oceani. Dobbiamo tutti lavorare per invertire questa tendenza e aumentare la consapevolezza dei pericoli che corriamo”, afferma Dante Caserta, vicepresidente di WWF Italia.
https://www.wwf.it/news/notizie/?54870/A-PLASTICA-dA-MARE-la-Tavola-rotonda-Il-punto-sul-mare
A cura di Simone Riga
Alla cerimonia di apertura del Festival dello Sviluppo Sostenibile 2020 hanno partecipato diversi esponenti del mondo dell’imprenditoria e dell’associazionismo. Mario Abreu, Head of Group Sustainability Ferrero, ha fatto presente come l’azienda Ferrero abbia garantito, anche nel periodo più acuto della pandemia, la sicurezza alimentare ai suoi consumatori. “Negli ultimi otto mesi abbiamo misurato le emissioni di anidride carbonica negli stabilimenti, al fine di ridurle” dice Abreu. Sandrine Dixson-Declève, co-Presidente del Club di Roma, ha affermato come il Covid-19 abbia fatto emergere le vulnerabilità insite nel modello mondiale in tutti i settori, “solo il 18% degli interventi vengono spesi in maniera sostenibile” sottolinea Dixson-Declève richiamando all’ importante necessità di un cambio di rotta che deve avvenire oggi. Una nuova economia che deve essere basata sui valori piuttosto che sulla ricchezza.
“È un’opportunità per prendere la direzione giusta” ribadisce anche Laurence Tubiana, CEO dell’European Climate Foundation. C’è il bisogno di trasformare la società partendo dalle energie rinnovabili, e nel caso dell’Italia anche sul campo della digitalizzazione. Dello stesso pensiero è anche Francesco Starace, Amministratore delegato e Direttore generale di ENEL, quale racconta di “un’Europa che attrae il 50% degli investimenti sostenibili nel mondo” che si pone come fulcro mondiale della sostenibilità.
All’evento dell’UNESCO, “Educazione all’Oceano per tutti: kit pratico”, è invece intervenuto il Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare, Sergio Costa, quale ha ricordato l’importanza degli impegni presi per la salvaguardia dei mari. Nel 2019 i Paesi della Convenzione Internazionale di Barcellona hanno firmato un accordo che prevederà dal 2023 un Mar Mediterraneo che diventerà area SECA, ossia con l’0,1% di emissioni di zolfo. Infine, inizierà in questi giorni la discussione in Commissione ambiente del disegno di legge “Salva mare”.
https://festivalsvilupposostenibile.it/2020
http://www.unesco.it/it/News/Detail/859
https://www.facebook.com/SergioCostaMinistroAmbiente/videos/2230622777084596
A cura di Simone Riga
Il Festival dello Sviluppo Sostenibile 2020 è iniziato nel nome della “Sostenibilità. È ora di agire”. Ha aperto l’incontro il Presidente dell’Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile (ASviS), Pierluigi Stefanini, quale ha affermato come la sfida si sia fatta più dura, con l’arrivo della pandemia, per il raggiungimento degli obiettivi dell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite. Tuttavia, la stessa pandemia ha portato maggiore sensibilità nelle comunità, per questo bisognerebbe proseguire su questo punto che chiama tutti ad essere “resilienti e trasformativi”. La transizione ecologica che si attende da molto tempo sembra che possa divenire realtà. La Commissione europea, con Ursula von der Leyen, aveva già preso la strada della sostenibilità, prima ancora dell’arrivo del Covid-19. “Il Green New Deal ne è stata la prova più concreta”, afferma Enrico Giovannini, portavoce dell’ASviS. Dopo un’attenta analisi dei cinque principali decreti legge, che il governo ha attutato da febbraio ad oggi, si evincono alcuni dei 17 obiettivi dell’Agenda 2030, tra questi la lotta alla povertà, il reddito, e la salute. Seppure, nessuna di queste misure ha permesso di contrastare la disuguaglianza di genere. Si sono trattati di “Interventi a protezione” ma che non guardano al futuro, dove ci vuole “prevenzione”, continua Giovannini. Invece, sul piano europeo, il Next Generation Eu, conosciuto erroneamente come Recovery fund, tende a precisare Giovannini, ha come tema centrale la transizione ecologica e in virtù di ciò, la Commissione europea, richiederà un dettagliato programma ad ogni Stato membro per ciascuna riforma che vorrà perseguire. In ogni misura che sarà presentata “il 37% dovrà essere destinato alla lotta alla crisi climatica”, sottolinea Giovannini.
https://festivalsvilupposostenibile.it/2020
A cura di Simone Riga
Il tema delle discariche in Italia è un tasto molto dolente. A fare da padroni sono soprattutto il mancato rispetto delle regole e la criminalità, dove non arriva quest’ultima è facile che si debba intervenire per delle irregolarità di vario tipo. Anche se la situazione sembra aver cambiato rotta negli ultimi anni, stando all’ultima relazione annuale del Commissario straordinario per la bonifica delle discariche abusive, il generale dell’Arma dei Carabinieri Giuseppe Vadalà. Dal 2007 lo Stato italiano riceveva pesanti sanzioni per le infrazioni commesse in molti siti, tra discariche abusive e illegali, che adoperavano in malo modo inquinando acqua, aria e terra. Alla cronaca è soprattutto nota la cosiddetta Terra dei fuochi tra Napoli e Caserta, ma di queste terre ce ne sono tante in tutta Italia, alcune anche invisibili poiché nascoste in capannoni. Si pensa che al momento siano circa 22mila i siti abusivi nel Paese, di questi quelli sanzionati dall’Unione europea nel 2007, e poi nel 2014 per il mancato adempimento degli obblighi delle direttive Ue, erano 200. Parte di queste discariche abusive sono state affidate, da marzo 2017, al Commissario straordinario Vadalà.
L’ultima relazione annuale della task force, di giugno 2019, affermava la messa in sicurezza di 81 discariche abusive. Di certo si trattava di un passo avanti, a beneficio dell’ambiente e della salute di tutte le specie viventi; e si è trattato anche di un risparmio per le casse degli italiani, considerando che dal 2014 le penalità erano arrivate ad ammontare fino a 42 milioni di euro, ogni sei mesi, e dopo gli interventi di ripristino delle aree la quota è calata a 8 milioni a giugno 2019. Seppur dei risultati si sono raggiunti, questa sembra essere solo una punta dell’iceberg che si cela dietro allo smaltimento dei rifiuti: costantemente sotto infrazione e soggetto sempre più ad infiltrazioni mafiose. Come riportato da l’Espresso, che fa un punto della situazione dei siti di smaltimento italiani, quello delle discariche sembra essere il “miglior business per i colletti bianchi in cerca di soldi sporchi”. Incendiare, invece che sotterrare, sta divenendo una prassi, e nell’ultimo anno sono stati accertati più di 250 roghi di origine dolosa. Invece, il rapporto Ecomafia 2019 di Legambiente, relativo al 2018, riportava un numero di reati ambientali pari a 28.137 con un vorticoso giro d’affari di16,6 miliardi. Di questi crimini circa 8.000 sono connessi al ciclo illegale dei rifiuti.
https://www.lastampa.it/tuttogreen/2019/11/02/news/discariche-abusive-una-ferita-profonda-ma-guarire-e-possibile-1.37800955
http://www.commissariobonificadiscariche.governo.it/it/relazione-semestrale/anno-2019/v-relazione-giugno-dicembre-2019/
https://espresso.repubblica.it/plus/articoli/2020/09/15/news/discariche-soldi-1.352904?ref=HEF_RULLO
https://www.legambiente.it/ecomafia-2019-le-storie-e-i-numeri-della-criminalita-ambientale-in-
italia/
A cura di Simone Riga
Domenica 20 settembre è stata apposta una nuova targa artistica in memoria di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin all’interno dell’omonimo Parco “Ilaria Alpi e Miran Hrovatin” inaugurato nel 1998 a Udine. La giunta comunale ha approvato la proposta dell’Associazione Insieme con Noi, organizzazione promotrice della nuova tabella composta in vetro e rappresentante un sole stilizzato, un’opera di Elisa Vidussi, glass master professionista. “Il Comune di Udine a Ilaria Alpi – Roma 1961 e Miran Hrovatin – Trieste 1949 uccisi a Mogadiscio il 20 marzo 1994, mentre svolgevano il loro lavoro di giornalisti alla ricerca della verità”, recita la targa.
I due giornalisti Rai vennero barbaramente uccisi in Somalia mentre indagavano su dei traffici di rifiuti tossici e armi. A distanza di 26 anni ancora non è giunta né la verità, né tantomeno la giustizia. “Ilaria Alpi e Miran Hrovatin erano dei ‘cercatori di verità’. Due giornalisti che pagarono con la vita la dedizione alla professione e il coraggio di raccontare ciò che altri non raccontano. A 26 anni dalla scomparsa, mi auguro che venga fatta piena luce sul loro brutale assassinio e resa giustizia alla memoria di due martiri della libertà di stampa”. Affermava lo scorso 20 marzo il Presidente del Senato, Maria Elisabetta Alberti Casellati.
https://www.udinetoday.it/cronaca/targa-ilaria-alpi-miran-hrovatin-parco-udine.html
https://www.agensir.it/quotidiano/2020/3/20/ilaria-alpi-e-miran-hrovatin-casellati-cercatori-di-verita-venga-fatta-piena-luce-sul-loro-brutale-assassinio/
https://www.raiplay.it/video/2016/06/Ilaria-Alpi-L-ultimo-viaggio-517b5ecd-4f17-41c6-a718-86e196cb731d.html
https://www.rainews.it/dl/rainews/articoli/Ilaria-Alpi-Il-piu-crudele-dei-giorni-film-4417ac13-6a9d-
438e-b3a1-f7e1a42356bb.html
A cura di Simone Riga
Nel 2018 sono stati prodotti in Italia 30,2 milioni di tonnellate di rifiuti urbani. Questo è quanto emerge dall’ultimo rapporto dell’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale (ISPRA), che rispetto a quello dell’anno precedente ha registrato un incremento pari a 590mila tonnellate. Il 22% dei rifiuti urbani sono stati depositati nelle discariche, mentre il 18% è stato smaltito negli inceneritori; in entrambi i casi si tratta di una pratica dannosa per l’ambiente poiché nella prima fattispecie si potrebbero inquinare il suolo, l’acqua e l’aria, mentre nella seconda si introdurrebbero degli agenti inquinanti nell’atmosfera.
Fatto sta che l’Italia avrebbe dovuto raggiungere quota 65% di raccolta differenziata nel 2012 e a distanza di sei anni, gli ultimi dati forniti corrispondono all’anno 2018, questo valore tocca il 58%. La distanza, considerando anche gli anni di ritardo, non appare soddisfacente. Scendendo nel dettaglio del rapporto, come evidenzia Openpolis, ci sono dei grandi squilibri a livello regionale. Se a nord si registra una percentuale maggiore di raccolta differenziata, a volte anche superiore al 65% (Veneto, 73,8%), al sud le cose cambiano con tassi addirittura sotto il 30% (Sicilia, 29,5%). Gli sbilanciamenti non mancano neanche dentro le regioni stesse, ovvero tra le provincie: Benevento raggiunge il 70,6% a dispetto dell’intera regione Campania che si ferma al 52,7%; mentre, nel caso opposto, Pavia si attesta al 51,5% rispetto al 70,7% della Lombardia. Invece, dove si registra la percentuale più bassa di raccolta differenziata è nella provincia di Palermo, con solo il 19,9%; mentre in quella di Treviso si raggiunge la quota più alta, l’87,3%.
https://www.openpolis.it/litalia-e-ancora-lontana-dallobiettivo-sulla-raccolta-differenziata/
https://www.isprambiente.gov.it/files2019/pubblicazioni/rapporti/RapportoRifiutiUrbani_VersioneIntegralen313_2019_agg17_12_2019.pdf
A cura di Simone Riga
Era il 26 aprile 1986 quando il mondo conobbe il più grave disastro nucleare della storia. Gli occhi erano tutti puntati su Chernobyl e il suo reattore numero quattro che in una notte di primavera esplose durante un test generando una fuoriuscita di radiazioni. Nell’allora Unione Sovietica, come ammise anche l’ex Presidente Michail Gorbaciov, tale fatto venne nascosto e ridimensionato in un primo momento, per poi essere reso pubblico solo in un secondo tempo. Diremmo una quasi Glasnost tiepidamente, e tardamente, rivendicata.
Da quel terribile giorno sono passati più di 34 anni, e dove un tempo si stanziarono silenzio e desolazione - nella zona di alienazione - adesso prosperano creature viventi e vegetazione. La foresta è diventata un’oasi di biodiversità nella quale vivono linci, bisonti, cervi e numerosi altri animali. Quest’area è diventata la terza riserva naturale più grande d’Europa con i suoi 2.800 km2.
“La zona di alienazione è un affascinante esempio del potere della natura di riprendersi dal degrado”, afferma Tim Christophersen, capo della United Nations Environment Programme’s (UNEP’s) Nature for Climate Branch. La stessa UNEP sta realizzando, con la collaborazione del governo ucraino e la Natural Resources and the State Agency on the CEZ, un progetto lanciato nel 2015 della durata di sei anni che supporta il prosperare della vita nell’intera area. Il programma ha passato anche i confini dell’Ucraina abbracciando la vicina Riserva radiologica di Polesskiy in Bielorussia, anch’essa colpita dalla tragedia di Chernobyl. “Entrambe le riserve consentiranno alle foreste naturali di aiutare a ripulire la terra e i corsi d'acqua contaminati”, afferma Mahir Aliyev, coordinatore UNEP per l’Europa a capo della gestione del piano. Pure in Bielorussia si è assistito ad un incredibile incremento della fauna – di alci, cinghiali e cervi - tra il 1987 e il 1996. E dalla metà degli anni ’90 crebbe notevolmente anche il numero di lupi. Gli studi condotti congiuntamente, tra i ricercatori ucraini e bielorussi, hanno individuato centinaia di specie animali e di piante nelle due riserve.
Seppur va detto, come afferma Anders Møller, scienziato presso l’Università di Parigi XI Paris-Sud, che se da un lato Chernobyl registra un “incremento di alcuni uccelli o di certi mammiferi, d’altro canto sappiamo anche che non godono di ottima salute”. Infatti, la presenza di alcuni materiali radioattivi, tra i quali il cesio-137, causano danni ai tessuti corporei e persino al DNA. Nonostante le criticità permarranno ancora per molto tempo, dalla storia di Chernobyl si evince “La resilienza della natura” che “può proteggere l’umanità dai disastri”, afferma Christophersen. “Mentre ci dirigiamo verso il Decennio delle Nazioni Unite sul ripristino degli ecosistemi (2021-2030), e soprattutto sulla scia della pandemia COVID-19, dobbiamo ricordare che gli ecosistemi naturali sono essenziali per la salute e il benessere umano”.
https://www.unenvironment.org/news-and-stories/story/how-chernobyl-has-become-unexpected-haven-wildlife
https://www.sciencedirect.com/science/article/pii/S0960982215009884
https://www.thegef.org/project/conserving-enhancing-and-managing-carbon-stocks-and-biodiversity-chernobyl-exclusion-zone
https://www.nationalgeographic.it/wildlife/2020/05/la-fauna-selvatica-prospera-nelle-zone-abbandonate-prima-della-pandemia
https://www.la7.it/atlantide/rivedila7/herzog-incontra-gorbaciov-17-09-2020-340189
A cura di Simone Riga
Il WWF ha proposto ai 22 Stati che si affacciano sul Mediterraneo, patrimonio di immenso valore, il progetto Blue Recovery Plan che potrebbe generare 400 miliardi di euro l’anno. “Il Mediterraneo è un concentrato di biodiversità che tutto il mondo ci invidia, con oltre 17.000 specie, paesaggi evocativi, ricco di cultura, tradizioni. I paesi che condividono questa grande ‘oasi marina’ hanno quindi un’enorme responsabilità verso i propri cittadini e la nostra proposta punta ad un futuro sostenibile del mare, per il mondo che verrà”, spiega Donatella Bianchi, Presidente di WWF Italia.
Il primo pilastro di questo progetto è insito nella necessità di salvaguardare la salute del mare, oggi solamente l’1,27% è posto sotto tutela e gli scienziati concordano sul fatto che almeno il 30% di esso dovrebbe essere preservato. Le aree marine protette, infatti, svolgono un’importante funzione per la riproduzione delle specie ittiche, che quindi giovano alle attività di pesca e di turismo sostenibili. E non per ultimo questi spazi incontaminati attenuano gli effetti dei cambiamenti climatici. Dalle analisi effettuate dal WWF, è emerso che i sette principali settori marittimi, che vanno dal trasporto all’acquacoltura, dalla nautica da diporto alla pesca ricreativa e su piccola scala, arrecano gravi danni in nevralgiche aree marine. E un ulteriore acutizzarsi di queste criticità deteriorerebbe ancor di più la pesca e la conseguentemente economia.
L’Italia si pone come uno dei massimi Paesi per fonte di ricchezza in termini di denaro e di biodiversità nel Mediterraneo, basta tenere conto che le acque che bagnano le coste italiane sequestrano annualmente una quantità di carbonio che vale tra i 9,7 e i 129 milioni di euro, mentre le praterie marine di posidonia contribuiscono alla difesa dall’erosione costiera e hanno un valore che equivale a circa 83 milioni di euro l’anno. Insomma, un capitale naturale che non sarebbe tanto da sperperare, o peggio ancora da buttare.
https://www.wwfmmi.org/medtrends/
https://www.wwf.it/tu_per_il_mediterraneo.cfm?54261/Un-Blue-Recovery-Plan-per-il-Mediterraneo
https://www.lastampa.it/tuttogreen/2020/08/23/news/wwf-un-blue-recovery-plan-per-il-
mediterraneo-1.39123507
A cura di Simone Riga
Quella che si sta vivendo è la più dolorosa stagione degli incendi nella storia della California. “The worst fire season even. Again”, così recita il Los Angeles Times. Negli ultimi dieci anni gli incendi hanno battuto record su record, basta pensare che 8 dei 10 più vasti incendi della California si sono scatenati nell’ultimo decennio e i numeri parlano chiaro, tra il 2001-2010, gli incendi di maggiore espansione, avevano mandato in fumo 1,6 milioni di acri, e questa cifra è più che raddoppiata nella decade 2010-2020, passando a 3,5 milioni.
Gli edifici andati in fiamme tra il 2001-2010 sono stati 12.428, se li si provasse collocare tutti insieme su una mappa ne uscirebbe fuori un’area due volte più grande del centro di Los Angeles. Nell’ultima decade quest’area è divenuta cinque volte più grande, con quasi 30.000 edifici distrutti. La stagione è solo agli inizi e 3,2 milioni di acri sono già andati bruciati, altro primato. Le estati sempre più calde, le poche precipitazioni che rendono arido il suolo e seccano la vegetazione sono un lasciapassare per gli incendi, molti di questi infatti si sviluppano in zone che soffrono un medio-alto livello di siccità. Gli effetti dei cambiamenti climatici, alcuni dei quali appena sopramenzionati, hanno portato anche ad un aumento della temperatura di circa tre gradi nello scorso secolo.
Park Williams, professore della Columbia University, ha spiegato come quest’anno il deficit di pressione di vapore in California è stato altissimo. Il deficit di pressione di vapore misura la temperatura dell'aria e l'umidità relativa. L’aria più calda spinge a trasformare l’acqua in uno stato gassoso, ovvero in vapore acqueo, ma c’è una quantità limite di vapore acqueo che può essere trattenuto nell’aria e quando questo valore diventa troppo alto vuol dire che “l’atmosfera è diventata un’immensa spugna alta sei chilometri”. E più l’aria è secca, più spingerà l’acqua presente in qualsiasi cosa, dal suolo alle assi di legno delle case, dai rami alle foglie degli alberi e del sottobosco, ad evaporare, afferma Williams.
“Questi incendi appena erano scoppiati non erano niente e poi sono divenuti dei mega-incendi”, prosegue il professore. Il North Complex Fire, che ha ucciso almeno 15 persone, “ha bruciato essenzialmente 200.000 acri in un giorno – solo questo avrebbe potuto essere uno dei più grandi incendi nella storia della California, se solo non fosse scoppiato lo stesso giorno in cui altri otto incendi si sono propagati con una velocità straordinaria.” Sebbene il North Complex Fire sia stato spinto da forti venti, molti altri incendi si sono estesi fino a 50.000 o 100.000 acri senza intense correnti d’aria. “In un certo senso, un’estensione di 50.000 acri nella foresta, senza vento, è ancora
più allarmante”, dice Williams.
Non bisogna dimenticare che, oltretutto, i fumi che si inalano sono molto pericolosi e dannosi per la salute dell’uomo e infatti, ai sette milioni di abitanti che risiedono nella Central Valley, è stato chiesto di restare a casa al fine di ridurre l’esposizione a queste nocive emissioni.
https://www.latimes.com/projects/california-fires-damage-climate-change-analysis/
https://www.theatlantic.com/science/archive/2020/09/most-important-number-for-the-wests-wildfires-california/616359/
https://www.theatlantic.com/science/archive/2020/09/photos-western-wildfires/616306/
https://eu.usatoday.com/story/news/nation/2020/09/15/oregon-california-washington-wildfires-smoke-east-coast-economic-damage/5801621002/
A cura di Simone Riga
Sylvia Earle, la biologa marina americana di fama mondiale, ha compiuto 85 anni lo scorso 30 agosto. È stata per oltre cinquanta anni esploratrice degli oceani e dal 1998 ha lavorato come Explorer-in-Residence per National Geographic. La sua carriera cominciò con un dottorato in algologia nel 1966, divenne in seguito acquanauta, poi scienziata per l’Amministrazione nazionale oceanica ed atmosferica (NOAA, National Oceanic and Atmospheric Administration), infine scrittrice e fondatrice di Mission Blue, un’organizzazione scientifica per la tutela degli oceani dalla pesca incontrollata, i cambiamenti climatici, l'inquinamento e le predazioni dell'uomo.
Nell’intervista rilasciata a National Geographic che ha visto come tema centrale, non a caso, gli oceani, Earle ha ricordato quanto è “essenziale mettere in luce i problemi e le soluzioni e mettere in grado le persone di usare le proprie conoscenze e capacità individuali per fare delle scelte. Se non c’è conoscenza, non può esserci attenzione e dedizione.” Nell’era della tecnologia e dei social media la conoscenza può essere condivisa con chiunque, ed è questo lo snodo cruciale che sta invertendo la tendenza negativa a non occuparsi di una situazione critica, o peggio ancora a non saperne affatto. Continua l’oceanografa: “I bambini di oggi sanno com’è la Terra vista dallo spazio, mentre io quando ero piccola lo ignoravo”.
A proposito della vita, passata ad osservare e studiare gli abissi, “Sua profondità”, così viene presentata delle volte la dott.ssa Earle, fa il punto della situazione: “Allora, cinquant'anni fa, si vedeva di tutto. Oggi abbiamo perso circa la metà delle barriere coralline e quasi il 90% dei pesci di grosse dimensioni. Abbiamo decimato i pesci in maniera spaventosa. Ogni anno preleviamo dagli oceani quasi 100 milioni di tonnellate di fauna, distruggendo gli habitat. Credevamo che l'oceano fosse vasto, resistente e con risorse infinite. Non è affatto così e noi abbiamo rotto i suoi equilibri”.
Uno dei progetti di Blue Marine sono gli Hope Spots, ovvero dei punti di ricerca posizionati nelle zone più critiche degli oceani, che servono a determinare lo stato di salute dei mari e delle specie viventi. “Il più grande problema degli oceani è l'ignoranza, il non capire che dovremmo preoccuparcene. Nessuna specie ha cambiato i mari più degli umani. Abbiamo preso il pesce su scala industriale e abbiamo riempito gli oceani di plastica. Ora è tempo di invertire la rotta, prima che il danno sia irreversibile". E se lo dice la più importante oceanografa al mondo, dobbiamo fidarci.
https://www.nationalgeographic.it/ambiente/2020/09/sylvia-earle-loceanografa-dei-record-la-nostra-vita-dipende-dalloceano
https://www.repubblica.it/dossier/ambiente/effetto-terra/2020/09/07/news/sylvia_earle_la_signora_degli_abissi-266278488/
A cura di Simone Riga