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giovedì, 28 Marzo, 2024

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Fake news, un articolo di Gustavo Ghidini

Articolo di Gustavo Ghidini,
Professore emerito dell’Università degli Studi di Milano
 

«Colui che inganna troverà sempre chi si lascerà ingannare»: Niccolò Machiavelli ci dà una delle sue lezioni di realismo valida anche oggi. Il termine fake news è nuovo, ma il fenomeno è storico:  dai Protocolli dei Savi di Sion, dall’incendio del  Parlamdnto tedesco (Reichstag) ad opera dei comunisti, alla nascita africana di Obama… È uno storico strumento di sviamento delle opinioni, che ha presa sul pubblico con tanto maggior successo quanto più i «messaggi» parlino alla «pancia», alle paure, alle superstizioni, all’odio. Hitler,  che di manipolazione delle masse si intendeva, disse che quanto più una bugia è grande, tanto più verrà creduta.

Il fenomeno è ingigantito, oggi, dalla comunicazione via Internet e dai social network che da un lato concentrano in poche «mani giganti»— le grandi ‘piattaforme’ del web– il controllo (raccolta e diffusione)  di informazioni e dati, dall’altro convertono in «oro pubblicitario» i dati personali (e i derivati profili), ceduti dagli utenti che abboccano all’amo dell’accesso «gratis« alle varie app. Un sistema mediatico che, per lo stesso fine, accoglie e fa circolare una gran mole di opinioni lanciate in rete da una massa anonima, e spessissimo prive di base razionale quanto ricche di sbracate  suggestioni: e proprio per questo di enorme presa :  e resa (pubblicitaria). Il tutto facilitato da quel modo sempre più sintetico, apodittico, facile, superficiale, tipico  della ‘comunicazione digitale’.

Le fake news sono inestirpabili, molto probabilmente, in assoluto: vuoi perché più penetranti nella credulità della moltitudine, vuoi perché strumento «necessario» anche di attività  istituzionali, come il controspionaggio. Vuoi infine anche perché già oggetto di un mercato: si vendono e comprano pacchetti di  fakes!

Ma si potrebbe ridurle, e fortemente, all’insegna di alcuni principi di etica pubblica, con iniziative istituzionali, e con l’ausilio di mezzi tecnici: che ci sono, e vanno quindi attivati da subito. Anzi, con ancora maggiore urgenza, a fronte della sinistra «evoluzione» che ha portato all’ulteriore insidia dei deepfake: l’uso dell’Intelligenza artificiale per consentire la riproduzione dell’impronta vocale, con sostituzione della voce, e l’appropriazione dell’immagine fisica per simulare e attribuire falsamente opinioni e informazioni a personaggi in grado di influenzare l’opinione pubblica.

È successo con Obama, è successo con Nancy Pelosi, la presidente dei Democratici alla Camera dei rappresentanti degli Stati Uniti. Succederà, e probabilmente è già successo, con altri.

La Cina, e questa notizia potrà forse sorprendere qualcuno, ha recentemente istituito il reato» di pubblicazione e diffusione di fake news, e in particolare di deepfake, in quanto elementi che possono turbare la vita sociale, l’economia, la sicurezza nazionale. Un provvedimento sacrosanto, pur se fosse parte di un disegno di controllo dell’informazione.

Istituzione di nuovi reati a parte, si dovrebbe seguire il virtuoso esempio della Finlandia, che dal 2014, dopo aver subito una massiccia invasione di fakes da parte russa (così si sospetta), ha avviato un programma di educazione alla vigilanza e alla «scoperta» di fakes nella scuola media .

In questa linea di «caccia alle fakes», che può utilmente avvalersi della tecnologia blockchain, si muovono lodevoli iniziative private, come quelle di gruppi ad hoc di giornalisti e osservatori della politica: in Italia, per esempio, Agi Fact-Checking e Pagella Politica, e in Usa FactCheck.org e PolitiFact.com. O iniziative universitarie, come quelle di Bologna, che dall’anno accademico 2020-2021 offrirà, per tutte le facoltà, corsi di critical thinking, sul modello di precedenti iniziative nordamericane. E ricordiamo anche i seminari dedicati della Luiss, della  Statale di Milano e della Bocconi.

Si potrebbe inoltre pensare (ma ci sono i mezzi?) all’attivazione, anche da parte delle autorità di «garanzie delle comunicazioni» ( come la nostra Agcom), e/o della polizia postale, di servizi di fact-checking idonei a combattere i nuovi, tecnologici «abusi della credulità popolare» che la rete irradia per influenzare gli allocchi.

Inoltre, le piattaforme ben potrebbero adottare algoritmi che consentano di far immediatamente seguire a una notizia o a un’opinione di contenuto X una di contenuto opposto o comunque diverso. Algoritmi «socratici» (e Socrates si chiama un motore di ricerca inglese che li ha adottati), che, per esempio, mettano in rete, subito dopo un’irresponsabile opinione «no vax» (che sopravvive, assurdamente, anche in tempi di coronavirus)   la contraria posizione dell’Istituto superiore di sanità e dell’Oms: senza aspettare che la prima venga validata (sic!) da migliaia di farneticanti like che relegano la seconda ai margini dell’attenzione.

Un tipo di intervento, questo, di facile adozione: che nel caso sia eluso o eseguito «al risparmio» dalle piattaforme (che, non dimentichiamolo mai, guadagnano in primis dalla quantità dei messaggi circolanti) potrebbe venire imposto dalla legge.

Non basta. Altre misure ancora possono essere messe in campo, in sinergia con quelle appena evocate. Ne proponiamo due, in sequenza logica e funzionale.

La prima (un corollario dell’etica della responsabilità) è l’effettiva identificazione personale di chi posta in rete, a qualsiasi titolo. Chi scrive l’aveva già proposto sul «Corriere della Sera – Economia» del 27 dicembre 2019. In Italia, un uomo politico e un paio di giornalisti hanno rilanciato l’idea: speriamo attecchisca e diventi norma. Del resto, lo ricordate? Sino a qualche anno fa, se si voleva mandare messaggi da un Internet cafè, si doveva esibire la carta d’identità (prassi improvvidamente  abolita). Perché trattare diversamente l’emissione di messaggi «da casa nostra»? Il nostro pc non può essere il porto franco per mandare in rete, Urbi et Orbi, ogni genere di fandonie, insulti e istigazioni, protetti da anonimato o falsi nomi. Che differenza di regole può essere giustificata, rispetto al regime della stampa, sempre soggetta, come è giusto, a responsabilità ben identificate?

Sul piano pratico, si potrebbe chiedere la cooperazione della polizia postale, che ha ovviamente  accesso ai registri di stato civile. Sarebbe così possibile la verifica dell’identità di ciascun utente che «posta»: verifica che diverrebbe la condizione di «entrata» per lanciare messaggi in rete. E pazienza— non si può fare l’impossibile– se esperti hacker riuscissero ad aggirare il dovere di identificazione: almeno si scoraggerebbe una grande massa di autori di ‘post’ demenziali e/o violenti.

La seconda misura (un corollario del dovere di non dire il falso) è quella di chiedere alle piattaforme (e non solo al «garante pubblico») di attivarsi per verificare quanto affermato. È il già ricordato fact-checking.

Rispetto all’adozione di questo, o un altro, tipo di misure, c’è chi propone, in prima battuta, di lasciare aperta la porta a soluzioni di autodisciplina, basate sull’adesione volontaria delle piattaforme, adesione magari incoraggiata da un’azione di moral suasion delle autorità di garanzia delle comunicazioni.

Si potrebbe,  certo,  ma restiamo un tantino scettici. È vero che alcune piattaforme appaiono più lungimiranti di altre nel porre argini ai fakes, e ai messaggi che incitano all’odio (hate speech), per prevenire guai giudiziari o amministrativi, e soprattutto ostili reazioni dal pubblico.

Ma nel quadro complessivo lo scetticismo si giustifica. Lo ha confermato, ad esempio,  il rifiuto di Facebook sia di attuare misure di fact-checking sulle dichiarazioni dei politici nei loro ‘post’ a (lautissimo) pagamento sia di rinunciare alla controversa pratica del microtargeting (uso di informazioni personali molto dettagliate per gli spot politici e commerciali: pratica, questa, che il Regolamento generale europeo  sulla protezione dei dati, vieta.  Per non parlare del mancato blocco da parte dello stesso gigante del web del ricordato, clamoroso deepfake sull’onorevole Nancy Pelosi. E, da ultimo, dall’ambiguissima istituzione di un Tribunale «privato» per risolvere, come arbitro «indipendente» (virgolette d’obbligo), le controversie circa la correttezza di quanto mandato in rete.

Questi dati di fatto sembrano confermare come non sia facile contare aprioristicamente sulla buona volontà di limitare i flussi di dati e opinioni in base a criteri di etica e serietà da parte di chi sulla mole di quei flussi tanto guadagna (e pressoché «esentasse», altro e distinto scandalo).

In ogni caso, se l’osservanza volontaria non funzionasse adeguatamente, si dovrebbe invocare un intervento normativo e far diventare questa prassi un «dovere giuridico» delle piattaforme, le quali per adempiervi hanno a disposizione tutti i necessari strumenti tecnologici.

Occorre insomma usare tutti gli strumenti possibili, a partire, lo ripetiamo volentieri, dalla scuola, per evitare che l’informazione «di testa» faccia harakiri a vantaggio di quella «di pancia». Siamo in un campo troppo importante per la cultura, e per la stessa democrazia, per abbandonarlo alle legge di Gresham: «La moneta cattiva scaccia quella buona»).

Bisogna però intendersi: non si tratta di istituire «tribunali della verità». Alla larga da  ciò! Si deve semplicemente bandire ciò che non sia seriamente dimostrato, e la dimostrazione incombe all’autore delle affermazioni. . In altre parole, tranne eccezioni ictu oculi assurde, come «la terra è piatta»,  la «verità»  va intesa a stregua di serietà  di fatti e argomenti portati all’attenzione del pubblico.

 

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