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Presentazione del Diversity Brand Index 2021 realizzato da Diversity e Focus MGMT

DIVERSITY BRAND SUMMIT – MERCOLEDÌ 14 APRILE 2021, ore 16.30

Presentazione del Diversity Brand Index 2021 realizzato da Diversity e Focus MGMT e premiazione dei brand con i migliori progetti D&I

“Diversity Factor: born to build trust” è il titolo della quarta edizione del Diversity Brand Summit, l’unico evento in Italia che riunisce e premia i brand più inclusivi, previsto mercoledì 14 aprile dalle ore 16.30 in diretta streaming su www.diversitybrandsummit.it; per l’occasione, verrà presentato il Diversity Brand Index 2021, progetto di ricerca volto a misurare la capacità delle aziende di sviluppare con efficacia una cultura orientata alla diversity & inclusion curato da Diversity e Focus MGMT.

Amazon, Carrefour, Coca-Cola, Durex, Esselunga, Freeda, Google, H&M, Ikea, Intesa Sanpaolo, L’Oréal, Leroy Merlin, Mattel, MySecretCase, Netflix, Pantene, Rai, Spotify, Starbucks, TIM, Vodafone: questi i brand che compongono la TOP20 del Diversity Brand Index per il loro posizionamento nel mercato e le loro iniziative/attività realizzate in Italia nel 2020 (21 brand per un pari merito). Saranno inoltre premiati i 2 brand capaci di lavorare concretamente sulla D&I, impattando anche sulla percezione del mercato finale: un vincitore assoluto e il brand che più di tutti ha saputo utilizzare la leva digitale per creare una cultura di inclusione.

Dalla nuova ricerca emerge che occuparsi di diversity & inclusion non può essere un impegno a intermittenza da parte dei brand, neanche in un anno difficile come il 2020, contraddistinto da una crisi sanitaria, economica e di fiducia senza precedenti e da un mutamento significativo del profilo di consumatrici e consumatori, meno arrabbiate/i, ma un po’ più individualiste/i rispetto alle tematiche della D&I, assumendo connotazioni “tribali”. La fiducia con il mercato si costruisce nel tempo e va alimentata con continuità. Allentare l’attenzione sulla D&I e non mantenere una comunicazione efficace e costante verso il proprio target di riferimento spezza in tempi rapidi la credibilità delle marche sul tema, riduce la fiducia e porta molti brand a essere percepiti come meno inclusivi rispetto al passato.

La D&I si conferma come un potente driver di posizionamento, distintivo anche al tempo della pandemia, con un impatto economico significativo: i brand percepiti come non inclusivi registrano un NPS (Net Promoter Score, indicatore del passaparola) negativo pari al -90,9% (con un’ulteriore riduzione di 4,9 punti percentuali rispetto all’anno precedente), a fronte di un +81,2% invece per i brand percepiti come inclusivi. Ciò si ripercuote sul differenziale della crescita dei ricavi: +23% a favore di quei brand che nonostante la crisi COVID-19 sono riusciti a non interrompere il loro piano di sviluppo e il loro impegno sulla D&I.

Il Diversity Brand Index 2021, sviluppato sulla base di una ricerca condotta da gennaio a dicembre 2020 su un campione statisticamente rappresentativo della popolazione italiana, composto da 1.039 cittadine e cittadini, ha visto una riduzione dei brand citati come “maggiormente inclusivi” (388, contro i 482 dell’anno precedente, ossia il -19,5%), a causa soprattutto della riduzione dei contatti a seguito del lockdown e dell’emergenza epidemiologica. Tale riduzione ha avuto due declinazioni: fisica e digitale. Da una parte alcuni brand che tradizionalmente hanno fondato la relazione con il proprio target sulla dimensione fisica, hanno sofferto l’inaccessibilità degli store e degli spazi commerciali; dall’altra nell’overload informativo legato alla pandemia, vari brand non hanno avuto la forza (e la volontà) di affermare il tema della D&I, focalizzandosi su contenuti ed attività più tattici e meno strategici. Queste dinamiche hanno impattato soprattutto alcuni settori che basano sul contatto diretto la comunicazione con la clientela: nella ricerca, infatti, considerando la composizione settoriale dei primi 50 brand percepiti dal mercato come più inclusivi, rispetto allo scorso anno, perdono terreno aziende legate ai consumer services (-12 punti percentuali – p.p.), all’FMCG (beni di largo consumo, -10 p.p.). Il retail (-2 p.p.) si conferma comunque il settore più presente (20%). Vengono invece premiate le aziende capaci di fare comunicazione su altri canali rispetto a quelli fisici (e-commerce, infotainment, social network): tra quelle percepite come più inclusive, infatti, fanno un balzo in avanti rispetto allo scorso anno quelle dell’information technology (+8 p.p.), apparel & luxury goods (+10 p.p.) e healthcare & wellbeing (+8p.p.).

Cambia anche il profilo delle consumatrici e dei consumatori: si conferma il trend della polarizzazione, con la scomparsa di alcune fasce intermedie in termini di orientamento all’inclusione (es. idealiste/i), ma allo stesso tempo si trasformano le parti della popolazione che in passato erano più negative nei confronti della diversità. Scompare, infatti, il segmento di arrabbiatissime/i e quello di arrabbiate/i passa dal 25,4% dell’anno scorso al 12,4%, con una composizione peculiare: il 63,57% di questo segmento è composto da uomini; vi è poi un 40% di giovani fra i 18 e i 35 anni che vedendosi private/i della propria vita sociale ed assistendo ad una focalizzazione mediatica sulla fascia degli “over” hanno sviluppato un atteggiamento non positivo nei confronti di alcune forme di diversità. Nell’anno del COVID-19 si registra una forte tendenza verso l’egoismo e l’individualismo, con l’arrivo della nuova categoria “tribali” (16,4%), composta da persone in passato distanti dall’inclusione che durante la pandemia hanno percepito come alcune forme di diversità fossero in realtà molto vicine: il loro coinvolgimento sui temi della D&I si declina infatti soprattutto all’interno del proprio nucleo familiare. Vi è poi un forte aumento dei consapevoli (15,7% dal 4,2% della precedente edizione), persone attente all’inclusione, ma non direttamente coinvolte.

In un Paese con un buon grado di conoscenza, familiarità e contatto sui temi della diversity ma ancora con una scarsa pratica, nell’interazione e nel coinvolgimento, la maggioranza delle persone (55,5%) è comunque altamente sensibile e attiva sulle tematiche della diversity, con il 34,5% di coinvolte/i e il 21% di impegnate/i. Togliendo l’unico cluster che esprime disinteresse generale e trasversale sul tema delle diversità, ossia quello di arrabbiate/i, il restante 88% di consumatrici e consumatori è maggiormente propenso verso i brand più inclusivi.

Infatti, anche in epoca COVID-19 viene confermato come le pratiche inclusive sui temi di genere e identità di genere, etnia, orientamento sessuale e affettivo, età, status socio-economico, (dis)abilità e credo religioso (le 7 aree della diversity su cui si è concentrata la ricerca) impattino positivamente sulla reputazione del brand e sulla fiducia che consumatrici e consumatori ripongono nella marca, riversandosi in un indice di passaparola positivo e risultati economici migliori.

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