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domenica, 8 Settembre, 2024

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Il dono del messaggio della mia vita: “Il grido della speranza” di Don Franco Monterubbianesi

Oggi è il giorno dell’Ascensione di Gesù al cielo, quando ci lascia con il suo corpo glorioso di risorto e ci dice di aspettare il dono dello Spirito Santo. Tra dieci giorni, per noi, il 28 maggio. Raccoglierete il dono della mia vita, il 30 maggio a 92 anni a Capodarco di Fermo, nel suo messaggio che oggi vi scrivo intitolato “Il grido della Speranza”. Seguiterò a lottare per voi fino a che Dio vorrà. Ho chiesto lumi al Signore per darvi un senso compiuto della mia vita. Essa è stata un grande grido, un grido nel deserto, il mio grido che, raccogliendo nel 65 la voce degli esclusi, di cui mi innamorai nei miei 18 anni di giovane dell’azione cattolica, nella Santa casa di Loreto nei bambini che avevano il morbo di pott, la tubercolosi ossea, pensando così di farmi medico per loro dissi nel giornalino, “La voce degli esclusi”, all’ intestazione della prima pagina, “Bisogna che il deserto fiorisca e non c’è che il tuo amore che possa compiere il miracolo, Signore! Questo scrivevo nel 65 e nel 66 incominciai la lotta per raccogliere da tutta Italia giovani disabili esclusi, da credente lanciai un altro grido: “La nostra comunità si intitola Gesù è risorto”. Andammo così con i primi a Lourdes e sul grido di un gruppo eccezionale di giovani, rinchiusi in istituti o in casa, gridammo insieme: “Noi vogliamo essere utile alla società”, ed io, al mattino del ritorno, dissi al personale delle dame e dei barellieri: “Basta! il pietismo a questi giovani” e lo dissi al mio Vescovo, che voleva invece, per il mio modo di reagire alla Chiesa della rassegnazione e del dolorismo ridotto a volontariato della sofferenza persino, mandarmi in America Latina. La mia coscienza si ribellò a ciò e con la sua approvazione nacque casa Papa Giovanni.  Ai suoi tempi c’era stato il grido del Concilio Vaticano II : “La Chiesa è soprattutto dei poveri”. Era il 62. Noi a Natale del 66 gridammo con il giornalino Il Piceno: “A Capodarco di Fermo si apre la casa di Don Franco”.

La grande epopea iniziò con i giovani del mondo, vennero persino dal Giappone, da tutta Europa. “La Vita Continua” fu il primo libro fotografico dove ardita era la foto della pittura di Luciano Mencaroni, miodistrofico, raffigurante il Cristo che si schioda.

Nella vita che si affermava anzitutto con i primi lavori, la formazione al lavoro, i sogni sul futuro andare a Roma con la fabbrica alternativa da creare a Roma, le leggi da modificare, con l’espansione fortissima degli aderenti (più di 100 già nel 1970), tutto si accompagnò alla nascita in quel tempo. Anche l’obiezione di coscienza al servizio militare con i giovani, nello spirito di un ’68 minore.  Antonio Riva, giovane di Bergamo gridò : “Voglio servire la patria negli invalidi di Capodarco” cominciammo così a cambiare le istituzioni. Nel 1971 la prima legge sull’handicap, dove all’articolo 4 si dice che oltre agli istituti ci sono anche i disabili che, nella loro autonomia, vogliono realizzarsi nell’autogestione. Così aiutammo in tutto quel fervore la coscienza dei giovani a vivere l’obiezione di coscienza al servizio militare nelle tante funzioni sociali, con la legge 772. Andammo a Roma dove io gridai ai funzionari del ministero della difesa, “Gli obiettori non vogliono essere i pompieri” . Ci fu in quei tempi, nel 1970, un dibattito se andare a Roma tutti uniti o disperderci.

A luglio c’era stata la morte di un giovane prete, Don Piergiorgio Fain, animato da una Fede che traboccava in un amore totale ai disabili. Era morto sulla spiaggia di Porto San Giorgio mentre accompagnava in acqua un disabile senza gambe. Per il suo sacrificio di amore è nata e lavora oggi alla grande la comunità di Udine Piergiorgio. Era un segno anche per noi sul dibattito del 1970, saremo andati non disperdendoci a Roma. Noi sognavamo di fare un villaggio ai Castelli, vicino a Velletri, ma andando scegliemmo un punto vicino al raccordo anulare per essere facilitati ad entrare ovunque. Lo Statuario. Con la prima casa e poi nel 1974 il grande complesso di Via Lungro con tutto lo sviluppo di Roma. Senza più dirvi le cose che creammo piano piano, con le cooperative integrate, le case famiglia, l’integrazione scolastica, la formazione e avvio al lavoro, i quartieri sensibilizzati come Tor bella Monaca, con il “Centro di integrazione sociale”, riconosciuto a livello europeo. Vi dico ora gli slogan che io lanciavo per tutti in Italia (per tutte le realtà nate prima a Udine, poi in Sardegna poi a Roma e poi ….. oggi sono 50 le realtà ispirate da noi). Gli slogan furono esemplari dello slancio che avevo, per esempio: “Fare comunità sul territorio”, “Volontarizzare il professionista, ma anche professionalizzare il volontariato” e più tardi “socializzare la famiglia per familiarizzare la società”, e altri che non ricordo.

Eravamo con la Caritas, ero fondatore con Don Luigi Di Liegro della Caritas diocesana di Roma, eravamo nel MOVI, nel CNCA. Il welfare sociale lo abbiamo creato anche noi di Capodarco, soprattutto nella lotta per i disabili, con le leggi di cui fummo promotori. I miei uomini migliori, pionieri del terzo settore nelle cooperative integrate e nell’inserimento scolastico, nell’occupazione obbligatoria, nel servizio civile, con il CESC, che ha compiuto 25 anni ed è una realtà nazionale, come il Focsiv e l’Arci. Una vera rivoluzione sociale. Ma il patrimonio più profondo di Capodarco delle origini, che si accompagna al suo valore sociale, è la vera rivoluzione delle relazioni umane, della vita comunitaria che si creò in un’appartenenza totale, comunitaria tra noi e i poveri, in una parità assoluta, nell’accoglienza, nella condivisione totale della vita dei poveri, per progettare insieme il loro grande sviluppo, della loro umanità, celebrando la loro ricchezza.

Sto pensando in questo momento al nostro Giorgino, a cui abbiamo dato di vivere in pienezza, lui condannato ad una vita breve dalla distrofia, portato invece a vivere dal nostro amore per lui, sino a 73 anni. Quanto valore delle vite dissepolte dagli istituti estremi, dai manicomi dove andavano a finire gli epilettici, dai ricoveri degli anziani e quanta bellezza in essi, nell’opera comune di ricostruzione, ed io più madre che padre, a difenderli, i più deboli tra essi, segnati da ferite che rendevano difficili i rapporti con loro, ed è qui il valore più grande del nostro vivere insieme. L’uno per l’altro, in una vera trasformazione di ciascuno nell’amore. Io il padre di tutti, nella mia sensibilità possibile anche se fragile, come ogni uomo. Quante accoglienze difficili anche per la mia vita personale. Alcune fallite, anche perché le istituzioni non ci sono venute incontro e noi non siamo stati all’altezza della condivisone e siamo stati magari superficiali, attaccati ai nostri poteri e non alla misericordia che dovevamo vivere. Ma quale poema è stata la vicenda affettiva vissuta in quegli anni ’70? Commentata dal giornale La Rocca, della Procivitate Cristiana di Assisi, che scriveva su di noi “Qui vale la pena di vivere” e “La comunità di Capodarco ha preso il volo”.  Lo scriveva venendo ad approfondire una grande svolta di un avvenimento che ha segnato per sempre la nostra storia. Era l’8 settembre del 1970 quando io grida, al mattino presto in tutte le stanze di casa Papa Giovanni, “Oggi ci sposiamo!”. Tre coppie straordinarie di sei disabili si sposavano quel giorno, davanti a 500 giovani e 13 preti che in Italia li avevano accompagnati nei nostri campi di lavoro. I preti di Fermo si scandalizzarono dell’avvenimento ma il nostro Vescovo di Fermo che non potette venire, lo chiamavamo nonno, approvò e fece poi una pastorale sulla famiglia, citando il nostro modello rivoluzionario di famiglia aperta. Di quei gruppi famiglia che hanno  formato l’epopea di Roma, descritta dal libro fotografico uomo 70, dal valore poi riconosciuto anche nella Amoris Letizia del numero 47 di Papa Francesco, sul valore della famiglia del dopo di noi. L’aria di famiglia, che ci disse il Cardinale Zuppi, che ci vuole aiutare a ritrovare gli ideali ancora vivi del passato, nella visita che ha fatto Capodarco in questi giorni. Noi gli anziani che trasmettono il valore dell’amore di Dio per noi, assurdo nell’accettare la morte trasmesso alla Fede dei giovani che hanno bisogno di ritrovare in Dio la loro forza. Perché attraverso la Speranza che Dio da loro di vivere, accolgano i poveri nella pietà ma anche nella loro fortezza di condivisione. In ciò c’è la vittoria per tutti e questo nella società smarrita di oggi, nella Chiesa, nelle coscienze. È il valore del nostro lavoro NON PER LORO MA CON LORO, come ci disse Don Angelo, in vincoli assoluti di amore “nello Spirito che rinnova la faccia della terra”.

Quale è stato il cammino dell’ultima storia da quando andammo a Roma e ci diffondevamo in Italia? Fu una vera storia di resistenza di condivisione, come ci disse Papa Francesco, però sottolineò di tappabuchi. lo la voglio descrivere perché fu anche una nostra grandezza, su tante cose che sono rimaste e vogliono risorgere in bellezza in questa appartenenza. Ci sono sempre i giovani disponibili, come quelli convocati dell’enciclica del Cristus Vivit di Papa Francesco.

Ma quanta resistenza sulle difficoltà in questi ultimi anni della mia vita! Venire qui a Grottaferrata nella casa famiglia Annarita, con Alberto Comino, fu una resistenza. Aiutare a far rifiorire la casa famiglia Milly e Memmo su altre scelte, additando che la crisi dei personalismi che si stavano facendo grandi, erano deleteri per il crollo degli ideali e che ci avrebbero portato alla rovina, come poi fu. In questa crisi di rapporti già dal 2012 additavo due piste di lavoro che sarebbero state risolutive per aiutarci a camminare spediti verso gli ideali futuri, il dopo di noi delle famiglie e i giovani del mondo, che dal 96 in poi, sino al 2010/15, furono il grande cammino ideale in cui, nonostante tutto, nella nostalgia di tutti noi che sentiamo lo smarrimento che non c’è più la comunità, ma il Cardinale Zuppi, che ha visitato Capodarco di Fermo ci dice che l’aria di famiglia c’è ancora tra noi, facciamola risorgere.

Fui definito, nel consiglio nazionale del 2011 di Capodarco, il garante morale della comunità, ecco su questo mio ruolo di visionario concreto dell’unità possibile da ritrovare ora, nel bisogno della società di oggi, smarrita nell’egoismo e nella catastrofe educativa dei giovani, con l’autorità vera del fondatore che, come padre di tutti, vuole solo servire gli altri a crescere,(autoritas viene da augere: aumentare) a ritrovare nel perdono dall’Alto, che ciascuno deve sentire per sé e farsi umile della propria fragilità. Decisiva è l’umiltà per ricominciare come lo Spirito Santo ci dà di sapere di noi stessi, comprendendo anche noi che può giocare sui nostri orgogli il nemico che ci divide. Ora io voglio essere colui che sana ciò che sa ancora sanguina per come abbiamo agito nella storia in tante realtà sofferte.

Voglio dire anche che non tutta la colpa fu nostra e sintetizzare gli anni meravigliosi del nostro sviluppo di Roma e dire che le realtà che sono nate, erano come dice il Papa, un lavoro di resistenza perché la società era già stata segnata nella sua negatività dal 1978 quando ci fu la morte di Moro. Il prevalere del commercio della droga che stroncava i giovani e noi dovemmo resistere con il CNCA e altre realtà ad accogliere i giovani nel loro smarrimento. Possiamo dire che in quegli anni dal ‘70 al ‘78 fummo i pionieri del welfare sociale in Italia come modello, soprattutto sul piano sanitario. C’era il modello che si formava in Europa, ma il sociale purtroppo era stato negato e lo abbiamo sperimentato nell’essere soli nello sviluppo della nostra idealità, sul piano dell’accoglienza, per cui le ASL non hanno saputo venirci incontro. Ma era la visione politica del tradimento della sinistra che, ideologicamente, ci tradì o nella rigidità ideologica del passato o nel liberalismo che scelse come sviluppo e che stava invadendo il mondo con i poteri internazionali sempre più grandi, tanto che il nostro andare al sud , vissuto in Calabria, in Sicilia, in Puglia, non ebbe grandi valori ambientali e di risultati, anche se nelle persone bellissime della Sicilia sin dai primi anni, con le sorelle Prezzemolo e nella figura di Ennio Pintacuda, vivemmo il famoso movimento “Città per l’uomo”. In Calabria, con tutta la resistenza che abbiamo fatto attraverso la comunità “Progetto sud”, dove la lotta di quel piccolo gruppetto fu straordinaria, ma Don Giacomo Panizza è ancora sempre scortato dalla polizia nella sua lotta sociale. In Puglia il valore della nostra Teresa e che portò avanti con l’Associazione “Il Solco” e realtà nate da Lecce a Bari per merito di Vinicio per il dopo di noi, o la realtà di Nardò, dove tanti giovani stanno creando un grande sviluppo anche per il dopo di noi.

Sono tutte cose su cui però c’è il valore di resistenza e non di consenso da parte dei poteri, per cui siamo arrivati a estremi limiti e quindi dobbiamo ricominciare da un valore di rinnovamento profondo. I tempi in cui noi stiamo vivendo, nella crisi della politica e come ci ha detto questi giorni il Cardinale Zuppi e l’ex sindaco di Roma Veltroni “Non arrendendoci” e come ci ammonisce il Papa nell’ultima lettera, in cui parla di credere a un cambiamento possibile non da tappabuchi ma come primi responsabili, ed una nuova visione politica che dobbiamo imporre, perché la giustizia sia il primo compito che dobbiamo dare ai giovani per affrontare il problema del futuro, del cambiamento ecologico che si impone, ma la crisi nella violenza che abbiamo fatto nel grido della terra e dei poveri del mondo ci dice che è dalla forza che diamo ai poveri del mondo di riscattare la loro condizione che anche la battaglia ecologica sarà vinta. Voglio ricordare una parentesi di questa storia che proprio ieri abbiamo vissuto. Stavamo in Ecuador nel ‘93 quando ci fu la strage di Capaci, eravamo lì con un altro grande grido, iniziato nel 92, nell’anniversario della scoperta dell’America sulla loro richiesta di aiuto e noi gridammo “Il povero aiuta il povero”. Tante cose nacquero, nel ‘97 celebrammo il trentesimo della comunità tutta a Quito in Ecuador e ci dicemmo che il cambiamento del mondo poteva nascere proprio dalla speranza che il sud ci avrebbe portato con i giovani, perché dall’esperienza che intanto era nata nel 96 nelle Marche, di “Noi ragazzi del mondo” e che si era sviluppata anche nel ‘97 ad andando in Africa, dove appariva lo scenario della nostra solidarietà, il Maejt  che si diffondeva da parte dei bambini di strada che venivano ad essere lavoratori del loro sviluppo, con dodici diritti da loro affermati in tutta l’Africa. Noi aiutammo quelli del Camerun di strada a diventare anche loro aejt sul territorio. Tutto questo diventò un poema con cui, noi con loro dal 2000, facendo una grande manifestazione in Brasile quando a Roma c’era il Giubileo della Chiesa, noi facemmo il Giubileo al sud del mondo, gridando nella piazza della Candelaria di Rio de Janeiro che la strage degli innocenti, che loro facevano, uccidendo con gli squadroni di morte i bambini di strada, 8 ne avevano uccisi in quella Piazza, gridammo “La strage degli innocenti che voi fate deve finire”. Dal 2005 sino al 2010, con i giovani del Sud del mondo dell’Ecuador e dell’Africa, fummo protagonisti di una grande forza e , vennero in Italia e dissero “Ragazzi italiani salviamo insieme la Pachamama” (la madre Terra). Fu un grido quando qui a Roma che pronunciammo verso le istituzioni chiuse, ma poi ci fu il crollo di Roma e quindi la mia grande battaglia per impedire che il crollo economico potesse anche travolgere il crollo ideale di dire tutti non c’è più la comodità. Ed è questo il momento che stiamo vivendo oggi, con tutta questa resistenza di cui sto parlando. Le due piste di lavoro additate dal 2012, con le famiglie dei disabili per il Dopo di noi e i giovani, operatori di condivisione, hanno due leggi che in sinergia possono aiutarci a rilanciare l’idealità di Capodarco in tutto il movimento nazionale che, come fondatore, nella mia visione utopica, in armonia con tutte le realtà dei territori, voglio realizzare. Le leggi sono la 112 del Dopo di noi e la 141 dell’agricoltura sociale, che può essere l’ambito in cui realizzare anche il nostro rinnovamento ideale. Proprio ieri abbiamo avuto una riunione in cui l’Europa si propone di creare, dall’agricoltura sociale, innovazioni per rafforzare i legami tra i settori dell’agricoltura, dell’assistenza socio sanitaria, dell’istruzione e dell’economia. Il fatto che la nostra Ilaria Signoriello sia stata scelta per questo lavoro in Italia, è il segno del successo che potremmo avere anche di far risorgere, su questo spirito, la nostra realtà ideale. La Chiesa ci aiuterà e, altra notizia giunta stamane, il Vescovo di Ascoli, nostro grande amico, è stato scelto come vice per le azioni pastorali del centro Italia. Il Cardinale Zuppi è sempre disponibile a collaborare e cominciando dalle Marche, a Gubbio e a Roma, nelle quattro regioni centrali, compresa la Campania, con l’aiuto di Don Vinicio, la mia visione di ricompattare gli ideali con tutte le realtà nel territorio che si sono fatte vive attraverso queste mie resistenze di 20 anni, anche perché il Dopo di noi, nelle Marche, deve trovare l’armonia operativa in tutto ciò che di relazioni abbiamo resistito in questi anni. Quindi chiudo questa mia testimonianza di dono della mia vita a tutti voi, miei interlocutori, con questo messaggio di Pentecoste che chiude con il grido della Speranza che in questi anni ho cercato di dirvi.

Il 28 state ricevendo lo Spirito Santo, tra i suoi sette doni c’è quello della pietà, dopo la sapienza e l’intelletto, che deve essere il ritorno ai valori della Bibbia e della storia umana e poi c’è la fortezza, per vivere la pietà sino in fondo, creando lo sviluppo della virtù della Speranza che è stata dimenticata nella storia della Chiesa, troppo legata ai principi e non all’azione. L’ultimo ammonimento di Papa Francesco è stato quello con cui ci ha detto che l’Ascensione ha significato due cose, che Dio con il Cristo risorto con il suo corpo ci dice la forza con cui il Cristo presenta a Dio le nostre necessità ma seguita ad intercedere anche perché la nostra Speranza, di Lui presente con noi fino alla fine del mondo, illumini la nostra azione. Chiudo con farvi riflettere, sempre dalla lettura di Maria Valtorta, che due furono i grandi gridi che sul calvario che chiusero la storia umana, Gesù nelle sue ultime convulsioni, nel grande grido che dicono i Vangeli lanciò, era la metà della parola Mamma, gridando nello sforzo tutto l’amore suo per noi, dandosi alla morte, affidato alla sua presenza. L’altro grido, nel pianto, il grido della madre fatta anche madre nostra in questa circostanza, “Non ho più un figlio”. Aggiungiamo a questi due gridi, il mio grido della Speranza con cui vi invito a farvi anche voi capaci di attuarla nei vostri progetti territoriali, che io seguirò con voi nella forza dello Spirito Santo che riceverete.

Don Franco Monterubbianesi

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